Quando a Firenze esistevano 7 stabilimenti balneari
Nel 1800 a Firenze vista, allora, la buonissima qualità delle acque del fiume, esistevano numerosi bagni, veri e propri stabilimenti balneari attrezzati dove i fiorentini potevano recarsi a rinfrescarsi gettandosi, senza grossi problemi, in Arno.
Il posto più frequentato era chiamato la “Vagaloggia”, di fronte a dove oggi si trova Palazzo Favard, zona Consolato Americano.
Qui il bagnino per una crazia, antica moneta toscana usata fino al 1859, quando poi fu sostituita dalla moneta di 10 quattrini, ti dava un asciugamano di lino, mentre in un grande stanzone al muro potevi trovare numerosi pettini di legno legati ad una corda attaccata ad un arpione perché non li portassero via.
Il bagno, che le cronache di allora definiscono “aristocratico”, era diviso da un cancello di ferro, coperto da una lamiera per “impedire la malvagia curiosità dell’altro sesso”.
Erano ancora da venire gli anni del topless o delle spiagge dei nudisti.
Da una parte ci stavano le donne e dall’altra gli uomini. Tra quest’ultimi tuttavia non erano pochi quelli che, sapendo nuotare, riuscivano a passare dall’altra parte, facendo urlare le donne per la spavalderia di quegli sfacciati, che spesso “scendevano nell’acqua, con il permesso anche della legge, come Dio li aveva fatti, e non sempre aveva fatto modelli di bellezza”.
In questo posto vi si recavano anche coloro che non volevano spendere: bastava andare un po’ più la dello stabilimento.
Qui però si correva un grosso rischio, non legato al bagno nel fiume, quanto a ritrovarsi nei “panni degli altri”, perché, chi per sbaglio, o per “cambiargli” in meglio, prendeva i vestiti di un altro che gioco forza rimanevano incustoditi.
Altri due bagni si trovavano lungo il prato del Palazzo del Nero, ora Torrigiani, detto “Buca del Cento”, chiuso da tende, e il “Fiaschiaio” dalla parte delle Molina dei Renai.
Il proprietario di tutti e due era Giovan Battista Bianchi, detto il “Rosso”, padre del noto e apprezzato pittore e restauratore Gaetano Bianchi al quale oggi è dedicato un importante premio nazionale, che aveva una bottega dove fabbricava le reti da pesca e dalla quale, grazie ad una scala di legno, si poteva scendere in Arno, pagando un quattrino, mentre per un “canovaccio per asciugarsi” bisognava sganciare un soldo.
In questi bagni donne e uomini stavano mescolati, quest’ultimi si legavano alla vita un fazzoletto, sia “per costume, che per rispettare la decenza”.
Erano bagni popolari-famigliari, in quanto i ragazzini, che stavano con le madri forse “perché vedessero più presto come stavan le cose”, facevano nascere discussioni, battibecchi, a cui spesso si aggregavano amici e conoscenti, e quel “teatrino”, sicuramente tutto vernacolare e molto colorito, era, per gli altri avventori, un divertimento a buon mercato.
Un vero e proprio stabilimento, coi fiocchi, come usava dire all’epoca, anti segnano delle cure termali, era quello situato all’inizio del Lungarno Serristori, frequentato da “fior di persone”, con camerini singoli, affinché ognuno avesse la propria “libertà”.
Primo proprietario fu un certo Lemmi che però poi lo passò a Monsieur Pons, da cui presero il none, “Bagni di Pons o delle Molina de’ Renai”.
Pons ebbe l’idea, originale per l’epoca, di creare alcuni stanzini con l’acqua dell’Arno scaldata in delle apposite tinozze, creando nei fiorentini “moltissimo fanatismo, perché nell’acqua dell’Arno – all’epoca, aggiungiamo noi – c’era una gran fiducia, e l’aver trovato l’esperienza di riscaldarla era una vera novità”.
Più in su, risalendo il corso del fiume, in zona San Niccolò, dove oggi si trova la spiaggia comunale estiva, all’epoca si trovava un altro bagno, frequentato “dalla peggior feccia di Firenze, perché vi andavano quelli della Porta a San Miniato e dei Fondacci.
Tale zona era pericolosa non solo per la gente che la frequentava, ma soprattutto perché ogni piena del fiume smuoveva il letto della gora, portandovi vetri, ossa, spazzatura buttata dalle case di San Niccolò, con il rischio di affogare”.
Con 28 centesimi si poteva invece entrare nel bagno del “Matton rossi”, in fondo a via delle Torricelle. Erano così chiamati perché lo stabilimento era mattonato e con il movimento continuo dell’acqua i mattoni si mantenevano sempre rossi.
Anche questo era un luogo a rischio a causa delle correnti, della profondità e dei molinelli, e per questo era frequentato da “notatori di polso”.
Altro luogo privilegiato da questi notatori, era la “Casaccia” alla Piagentina, dove dal “Dottore”, un oste che veniva cosi chiamato perché “medicava clandestinamente certe malattie”, si poteva mangiare il fritto di pesci d’Arno o l’affettato con un buon bicchiere di vino.
Molti di questi nuotatori son passati a miglior vita, trasportati dal fiume alle loro case grazie ai confratelli della Misericordia, che già a quei tempi avevano il loro daffare.
E siccome nel tratto cittadino del fiume la gente si tuffava molto volentieri, il governo aveva messo un premio di dieci scudi per chi salvava coloro che finivano per trovarsi in difficoltà. Solo che “fatta la legge, trovato l’inganno” e così qualcuno iniziò a mettersi d’accordo con altri per fingere falsi annegamenti e riscuotere la lauta ricompensa.
Per questo motivo ben presto il Governo la tolse e da quel momento nessuno si gettò in Arno per salvare i malcapitati che affogavano.
Era altri tempi, però, se ci pensiamo, con un po’ più di buona volontà da parte di tutti, buoni depuratori, e maggior sensibilità verso il fiume, forse potrebbero rivivere?
Franco Mariani
Dal numero 3 – Anno I del 29/01/2014
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